
Viviamo in un’epoca in cui possiamo avere (quasi) tutto: cibo a domicilio in pochi minuti, film in streaming, viaggi prenotabili con un clic. La modernità ha moltiplicato le possibilità e ci ha fatto risparmiare tempo, eppure spesso non abbiamo il tempo, o il coraggio, di prenderci cura di noi.
Eppure, siamo sempre di corsa. Sempre occupati. Sempre “di servizio”.
Corriamo da una parte all’altra per soddisfare richieste, doveri e aspettative: del nostro capo, di una collega che ha bisogno urgente di un file, di un genitore da accompagnare a una visita, di un figlio che vuole essere ascoltato, di un partner in difficoltà.
A volte lo facciamo con affetto. Altre, perché ci sembra giusto così. Oppure, peggio ancora, perché ci sembra sbagliato anche solo immaginare di metterci al centro, senza provare senso di colpa. Diventiamo esperti nel rispondere ai bisogni degli altri, ma disimpariamo ad ascoltare i nostri. E se qualcuno ci chiedesse:
“Quando è stata l’ultima volta che ti sei concessa/o qualcosa solo per il piacere di farlo?”
…molti di noi probabilmente resterebbero in silenzio.
L’arte dimenticata dell’auto-gratificazione
Auto-gratificarsi non significa essere egoisti. Significa riconoscere che esistiamo. Che abbiamo bisogni, desideri, sogni piccoli e grandi.
Significa concedersi uno “strappo” senza doverlo giustificare: un gelato preso per sé, una passeggiata senza meta, un pomeriggio libero da tutto e da tutti. Anche solo dire “oggi no” a qualcosa che non vogliamo fare.
Eppure, molte persone provano disagio nel farlo. Alcune addirittura si sentono in colpa.
È come se ci fosse una voce interiore che sussurra:
“Non te lo sei meritato.”
“Non hai fatto abbastanza.”
“Ci sono cose più urgenti.”
“C’è qualcuno che ha più bisogno di te.”
Queste frasi, spesso inconsapevoli, sono il segnale che abbiamo interiorizzato un modello in cui valiamo solo quando produciamo, aiutiamo, risolviamo. Non quando semplicemente “siamo”.

Frustrazione invisibile: quando il bisogno viene ignorato
La mancanza di auto-gratificazione genera una frustrazione silenziosa e profonda. Non è una rabbia esplosiva. È più simile a una stanchezza di fondo, un senso di vuoto, una perdita graduale di entusiasmo.
Spesso diamo la colpa al lavoro, ai figli, al partner. Ma il nodo può essere un altro: abbiamo smesso di trattarci con amore.
Ti sei mai chiesta/o:
“Mi voglio bene? Veramente?”
È una domanda disarmante. Semplice solo in apparenza.
Volersi bene non significa solo coccolarsi ogni tanto, ma riconoscere il proprio valore anche quando si è fragili.
Significa accettarsi, anche quando si deludono le proprie aspettative.
Avere il coraggio di dirsi: “Sono abbastanza, così come sono.”
Lo psicologo Carl Rogers diceva:
“Il curioso paradosso è che quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare.”
Volersi bene, quindi, non è un punto d’arrivo, ma un processo continuo di ascolto, presenza e gentilezza verso di sé.
Come capire se ti vuoi davvero bene?
Inizia da qui: osserva come ti parli quando sbagli.
La voce dentro di te è giudice o alleata? Ti tratti con la stessa comprensione che offriresti a un amico/a in difficoltà, o ti colpisci con durezza?
La psicologa Kristin Neff scrive:
“La compassione verso sé stessi è trattarsi con la stessa gentilezza e cura che offriremmo a un caro amico.”
Eppure, noi siamo spesso i primi a disconfermarci, a negarci amore.
Perché? Forse confondiamo l’amore per sé con l’egoismo, o crediamo di dover meritare affetto attraverso risultati.
“Essere gentili con sé stessi è rivoluzionario.” (Rupi Kaur)
Volersi bene è un atto radicale di verità.
È dirsi “No” quando gli altri si aspettano un “Sì”, per proteggere i propri confini.
È lasciar andare ciò che fa male, anche se fa paura.
È perdonarsi, senza giustificarsi, riconoscendo che si è umani, e quindi degni d’amore anche nell’errore.
La risposta alla domanda “Ti vuoi bene davvero?” non è un sì o un no.
È piuttosto:
Quanto tempo riesci a restare con te stesso quando stai male?
Quanta gentilezza riesci a portare nel tuo dialogo interiore?
Quanta verità riesci a sostenere davanti allo specchio?

Volersi bene non è un atto estetico. È un atto etico.
È un impegno quotidiano, fragile ma necessario, verso la verità di chi siamo.
Guardandoti allo specchio ogni mattina, prova a dirti: “Oggi ti accompagno. Anche se non sarà perfetto.”
Dopo un errore, fermarti un attimo e pensa: “Sto imparando. È solo un momento, non mi identifica.”
Chiediti ogni sera: “Cosa ho fatto oggi per me?” Anche solo respirare in silenzio.
Rifletti sul dire “no” a un invito, a una richiesta, senza spiegazioni infinite. Solo perché quel “no” protegge un tuo bisogno.
Volersi bene non è una frase da poster motivazionale. È un’azione quotidiana, concreta, imperfetta.
Per concludere, ti lascio un piccolo esercizio per (ri)cominciare da te
Prenditi cinque minuti, ora.
Chiudi gli occhi e respira profondamente per tre volte.
Pensa a una persona a cui vuoi davvero bene. Immagina di parlarle mentre è in difficoltà. Quali parole useresti? Che tono avresti?
Ora, rivolgi quelle stesse parole a te.
Dille ad alta voce, o scrivile.
Infine, guardati allo specchio e scegli una frase da dirti con intenzione e verità.
Può essere: “Sto facendo del mio meglio”, “Ti vedo”, “Ti voglio bene”, “Va bene così”.
Ripetilo ogni giorno per una settimana. Anche se ti senti sciocca/o. Soprattutto se ti senti sciocco/a.
Ogni piccolo gesto d’amore verso di te ha un impatto. Ti cambia. Ti cura.
Ogni volta che scegli di ascoltarti, di fermarti, di rispettare un tuo bisogno, anche solo per un minuto, stai dicendo a te stesso: “Io conto. Io esisto.”
E se senti che questo percorso ti parla, che ti rispecchia, ma hai bisogno di essere accompagnata/o, io ci sono, qui, per te.
Perché a volte, per imparare a volerci bene davvero, serve anche il coraggio di chiederlo.
“Buona cura di te, ogni giorno, a partire da adesso. ”